I colori del fiordaliso
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Originalità vs. Banalità

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Questo mese Ritenzione lirica mi ha lanciato l’argomento originalità a tutti i costi vs. banalità. Ecco come lo abbiamo interpretato. Buona lettura!

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In quarta superiore la professoressa di lettere ci faceva scrivere le recensioni dei libri assegnati in lettura sotto forma di articoli di giornale.

Ci indicava una data di consegna e un numero di battute.

Noi dovevamo scrivere l’articolo, dargli un titolo, firmarlo e decidere anche in quale giornale ne immaginavamo la pubblicazione.

(Dopo molti anni mi ritrovo ogni giorno a scrivere di libri – anche se non per lavoro, ahimè – e questi esercizi mi sono stati utili.)

La settimana seguente ci restituiva i pezzi corretti, con il voto e delle annotazioni a margine. Terribili.

Strapparle un 8 era diventato miraggio e questione di principio allo stesso tempo: chissà perché ce la facevo sempre con gli articoli sui libri che mi erano piaciuti di meno.

Quelli dedicati ai romanzi che più avevo amato, invece, spesso avevano un 7 scritto in alto e, a margine, la nota Banale.

Praticamente, il 7 era dovuto alla corretta esposizione in italiano e all’aver rispettato numero di battute e scadenza.

Il contenuto, beh secondo lei lasciava a desiderare.

Quel Banale è rimasto impresso nella mia memoria, come scolpito sulla pietra, e ancora oggi, quando leggo o sento questo aggettivo, trasalisco. Non lo utilizzo mai quando scrivo, non giudico mai “banale” un libro, una persona, un gesto.

Banale, secondo Treccani, è qualcosa privo di originalità o di particolare interesse, quindi comune, ovvio, scontato.

La parola banale deriva dal francese banal, che originariamente significava comune a tutto il villaggio, come un mulino di uso comunitario in epoca feudale, ad esempio.

Ecco, dopo parecchi anni ho capito che l’originalità che cerco, la più difficile da catturare quando si scrive, è proprio la banalità.

Scrivere di vita comune, di ovvietà, di ciò che capita a tutti quotidianamente è difficilissimo e straordinario allo stesso tempo.

Perché raccontare cose comuni a tutti non rientra nell’idea di storia che abbiamo in testa, quella con i colpi di scena e i personaggi che vivono vite fantastiche e compiono gesti che noi non potremmo mai: raccontare la piccola vita ordinaria di ogni giorno dandole la forma di una storia (di fiction o autobiografica) è impegnativo, richiede meticolosità, pazienza e forza d’animo.

Ma i risultati, quando ci sono, superano di gran lunga quelli ottenuti inseguendo l’originalità a tutti i costi.

I miei due esempi letterari preferiti sono Stoner di John Williams (Fazi Editore) e Il commesso di Bernard Malamud (minimum fax).

Ho scoperto entrambi grazie a Marco Missiroli, il mio maestro alla Scuola Holden.

Lì, durante quell’anno intenso e bellissimo, ho capito che la quotidianità e i dettagli della vita comune a tutti sono la mia banalità, la mia vera originalità.

Ho capito che non dovevo più vergognarmi di quei Banale scritti in rosso su compiti che ancora conservo in un cassetto.

E ho capito che, ancora una volta, una parola può avere mille sfumature diverse, quelle sì, originali per ciascuno di noi.

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Ritenzione lirica

Nel tema che ho lanciato questo mese, c’è un dilemma su cui mi arrovello spesso, soprattutto quando revisiono ciò che scrivo.
La mia paura più grande, come scrittrice, è proprio quella di essere banale. Se rileggendomi mentalmente ho l’impressione di aver scritto qualcosa che ho già letto da qualche parte, scarto subito senza esitazione.

Cerco di schivare le frasi già sentite, le metafore più abusate. Non perché le trovi poco efficaci: è che si sono già affermate nel linguaggio comune e il loro significato rischia di risultare più fragile. Del resto, anche come lettrice, resto sempre impressionata dalla forza di un’espressione nuova, di un paragone che non mi era mai venuto in mente. E cerco di riprodurre nella mia scrittura questo meccanismo: la meraviglia.

Il rischio del mio approccio è facilmente intuibile: è il barocco. Anzi, il rococò. La meraviglia fine a sé stessa, svuotata di significato. O, peggio ancora, l’autoreferenzialità. Se una metafora è chiara a me soltanto, se non sa parlare agli altri, trasmettendo qualcosa non dico di universale, ma almeno di intelligibile da chi non mi conosce personalmente…non è una poesia. La fatica è proprio questa: far emergere le parole giuste, rivelare un significato nascosto ma tangibile, visibile nella realtà fenomenica o emotiva, e farlo in una forma che sia comprensibile ma che non perda la capacità di meravigliare.

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Certi temi, nella mia esperienza, sono più scivolosi di altri.
Uno su tutti: l’amore. Quanti luoghi comuni, sul romanticismo! Difficilissimo battere strade inedite. C’è tutto un repertorio di immagini ormai ascritte al sentire comune, in qualche modo codificate come “romantiche” e inevitabilmente associate alla poesia. Ma sul serio un tramonto sul mare è più poetico delle sei di sera in una zona industriale?
Chi può dirlo. Nel quotidiano c’è tanta poesia, ed è proprio quella che in genere mi cattura: per quanto mi riguarda, infatti, amo condividere la meravigliosa complessità delle minuzie, tutte le sfaccettature della banalità.

Chiudo il mio sproloquio con una filastrocca.
Era dai tempi delle elementari che non ne scrivevo più, ma ci tenevo a lasciarvi con una nota di leggerezza, sperando di avervi trasmesso qualche spunto su cui riflettere.

FILASTROCCA DEL QUOTIDIANO

Non vi hanno rotto, le poesie d’amore?
D’anima e palpiti non siete stanchi?
Della passione che vibra nel cuore,
dei sospiri, del sole nei tuoi fianchi?

Delle lenzuola madide e sudate
dell’eco dei suoi passi, di quei fremiti
delle emozioni al mare ritrovate
delle carezze e di tutti quei fremiti?

Diciamolo: un po’ c’hanno scassato,
le frasi fatte, i luoghi instagrammabili
lo scatto senza nulla di rubato
di corpi avvinti in pose immaginabili:

e se poesia fosse la lavatrice,
o, sullo schermo, un ticchettio di dita?
Il gesto quotidiano assai ci dice
della magia dell’essere qui, in vita.

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