Questa storia comincia venticinque anni fa e (ri)nasce oggi, proprio qui, perché oggi è il 21 giugno, è il solstizio d’estate, è san Luigi ed è anche il giorno in cui sento di nuovo, forte, l’odore dei gigli.
All’inizio di giugno del 1998 io avevo quasi dieci anni e mio nonno se ne andò, trascinato via a sessantacinque anni da un tumore. Ricordo molto bene quel giorno, il giorno in cui tutto, per me, cambiò davvero.
Gino era una figura di riferimento nella società rurale del posto in cui vivo: tutti lo conoscevano, in molti gli erano amici, tanti erano stati aiutati da lui in vari modi.
Morì a casa, come desiderava, e nei giorni seguenti la sua casa, la nostra casa si riempì di gente che arrivò dapprima alla spicciolata, silenziosa e composta, poi sempre più numerosa durante i momenti di preghiera. Era l’inizio di una calda estate: di giorno il sole batteva sulle persiane accostate, la sera i temporali rinfrescavano l’aria per una mezzora.
Cominciarono ad arrivare fiori, moltissimi fiori.
Nonostante avessimo richiesto forme di partecipazione in opere di bene, il mazzo di fiori era ancora il simbolo universalmente riconosciuto del lutto, della vicinanza a chi soffre per la perdita subita, del ricordo di chi era lontano e poteva soltanto far recapitare un pensiero dalla fioraia o un telegramma.
Mio nonno si chiamava Luigi e i gigli, in quei giorni, avevano cominciato la loro fioritura annuale: ne arrivarono moltissimi e il loro odore impregnò tutto.
La casa, le stanze, i vestiti che avevamo addosso e l’ingresso in chiesa; la cerimonia funebre, l’ultimo saluto, ogni più piccolo spazio intorno a me odorava di gigli.
Erano bianchi e bellissimi, punteggiati di rosso carminio. Svettavano su tutti gli altri fiori nelle composizioni; spiccavano tra il verde e il rosso delle rose.
Da quell’estate non mi sono mai più avvicinata a un giglio: non ne avevo il coraggio.
In quell’estate sono diventata una giovane donna e ho smesso i miei vestiti di bambina: ero e sono tuttora la fia pì granda, la sorella maggiore, la nipote più vecchia, l’unica nipote femmina a portare il cognome di famiglia. Ho preso in mano il ferro da stiro e le padelle; ho preso per mano mio fratello, tante volte e in molte occasioni. In quel momento ho capito che per davvero qualcuno può andarsene per sempre e che non avrei mai più mangiato wafer dopo cena con lui, seduti davanti al tg5.
Sono passati venticinque anni e solo la scorsa primavera ho trovato il coraggio di piantare nel giardino di casa mia – un piccolo, adorabile giardino che penso sarebbe piaciuto a mio nonno – tre bulbi di giglio. Sono due Muscadet e un Lotus Elegance, quello che vedete in foto.
I gigli bianchi, quelli di san Luigi, devono ancora sbocciare, si stanno preparando.
E quando fioriranno sarà un momento tutto nostro. Mio, loro e di Gino.
Questa storia è cominciata da una fine, venticinque anni fa, e ora è qui: è rinata insieme all’odore dei gigli.
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