Incontrai per la prima volta la scrittura di Giorgio Bassani vent’anni fa, me ne rendo conto soltanto ora. Avevo sedici anni e mi trovavo nella biblioteca scolastica dell’istituto dove frequentavo la classe terza. Come accadde molte volte, anche in quell’occasione ero sfuggita alla lezione di educazione fisica per dedicarmi a un’attività che ritenevo molto più utile agli altri e molto meno umiliante per me: mettere in ordine i volumi del prestito e catalogare i nuovi titoli.
La mia insegnante mi passò con nonchalance un piccolo libro, piuttosto consunto e dal tipico odore di biblioteca, quello della carta che è passata tra molte mani, un po’ ingiallita, il dorso del volume ruvido di mille pieghette.
Era Gli occhiali d’oro e lo divorai in un paio d’ore.
Quello, per me, sarà sempre il libro della ginnastica.
Leggevo e ogni tanto alzavo gli occhi dalla pagina per allontanarmi qualche secondo dal profondissimo senso di ingiustizia che stavo provando. Sentii di nuovo le stesse sensazioni anni dopo, quando proposi Gli occhiali d’oro al gruppo di lettura che coordinavo, dedicato alle opere dimenticate della letteratura del ‘900. Non erano giuste un sacco di cose in quella storia, eppure tutto era accaduto davvero: le leggi razziali, la discriminazione, l’omofobia.
E Giorgio Bassani le racconta tramite un narratore che vive tutto in prima persona trovandosi nella privilegiata eppure disperata condizione dello spettatore futuro, salvo – sì, ma colpito nel profondo dalla propria impotenza dinnanzi a voleri molto più grandi di lui.
Poco tempo dopo quel primo incontro, ritrovai Giorgio Bassani in Il giardino dei Finzi-Contini: ritrovai quel retrogusto amaro di ingiustizia, ma quella volta empatizzai moltissimo con i protagonisti: Micòl, Alberto, l’io narrante erano ragazzi come me in quel momento.
Di quella prima lettura ricordo la sensazione della calda terra rossa del loro campo da tennis, gli odori di un’estate lunghissima e incredibile. Era l’estate del 1938, le leggi razziali stavano cominciando a cambiare la vita degli ebrei della sonnacchiosa e apparentemente imperturbabile Ferrara, il circolo del tennis inviava lettere di dimissioni ai soci di religione ebraica, gli imprenditori venivano esclusi dalle istituzioni locali, le università non accettavano ebrei tra i nuovi iscritti.
In quei mesi di incertezza che precedono lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale i giovani fratelli Alberto e Micòl Finzi-Contini aprono il loro campo da tennis privato a un manipolo di coetanei. I cancelli della magna domus – una immensa e segreta villa nascosta nel verde – si aprono ogni pomeriggio verso le due e mezza e i giovani invitati attraversano, le biciclette per mano, l’immenso giardino del Barchetto del Duca per trascorrere così quelli che diventano i loro più preziosi momenti di spensieratezza.
In quei mesi di tennis, estate, passeggiate e chiacchiere i rapporti si rinsaldano, anche se Micòl e Alberto rimangono come due entità al di sopra di tutti: ospiti ineccepibili, non abbandonano mai del tutto quell’alone di mistero che li circonda sin da bambini.
L’unico a oltrepassare quel velo di riservatezza sembra essere il narratore di questa storia, ammesso anche nell’inverno successivo e l’anno dopo alla frequentazione della casa e della famiglia Finzi-Contini, ebrei dell’alta borghesia ferrarese che in apparenza non sembrano amare particolarmente la socialità cittadina.
È lui – associato allo stesso autore – a raccontare anni dopo questa storia, dedicandola a Micòl, la figura più controversa e bella di questo romanzo.
Giorgio Bassani scrive Il giardino dei Finzi-Contini in più stesure, cominciando da un racconto del 1955, dando alle stampe la prima versione del romanzo nel 1962 e continuando a lavorarci fino all’ultima revisione, identificata come definitiva e inserita come terza parte nel più ampio progetto de Il Romanzo di Ferrara. È una scrittura neorealista, la sua, profondamente distintiva della letteratura italiana del secondo ‘900. Il ricordo diventa parte fondante e non media mai: nulla è attutito, intimidito, intenerito dal passare del tempo. Le pagine si fanno testimonianza in chiave letteraria di un passato che non è utile dimenticare, che è vita ancora vibrante.
La famiglia Finzi-Contini scomparì nei campi di concentramento nel 1943; è dell’anno prima la morte per malattia di Alberto. Termina così la breve vita di Micòl Finzi-Contini, una delle più belle ed enigmatiche figure femminili della letteratura italiana del ‘900.
Giorgio Bassani scrive questo romanzo attingendo dalla sua stessa vita, dalla giovinezza ferrarese durante la quale una vera famiglia Finzi-Contini (probabilmente la famiglia di Silvio Magrini, presidente della comunità ebraica locale) ebbe un campo da tennis, dei figli adolescenti più o meno della stessa età dello scrittore e quella tragica fine.
Ho riletto Il giardino dei Finzi-Contini recentemente, a inizio 2025, e ne sono uscita ancora più innamorata e indebitata nei confronti delle storie, della lingua, dello stile di Giorgio Bassani. Ho ritrovato incipit di capitoli assolutamente perfetti e una fluidità precisa, elegante, colta pregna della scrittura novecentesca che così tanto ha da insegnarci, soprattutto nel momento storico che stiamo dolorosamente vivendo.
Leggiamolo, oggi più che mai.
Per approfondire
Il giardino dei Finzi-Contini venne pubblicato nel 1962 da Einaudi e quell’anno vinse il Premio Viareggio. L’edizione che ho io, ritrovata su una bancarella, è la quarta ristampa dell’agosto 1962: la sovraccoperta è quella originale, con il dipinto Nu couché pas di Nicolas de Staël e la riproduzione, a pag. 88, dell’acquaforte Campo di tennis di Giorgio Morandi (1923).
Altre opere di Giorgio Bassani sono pubblicate da Feltrinelli, casa editrice per cui lo scrittore lavorò molto tempo in qualità di consulente e direttore editoriale: fu grazie a lui, ad esempio, che Il gattopardo arrivò in libreria, con tutto il successo letterario che ne conseguì.
Sempre del 1962 è l’arrivo in libreria, anch’essa per Einaudi, della raccolta di scritti e saggi brevi di Natalia Ginzburg Le piccole virtù. La stessa scrittura neorealista, precisa, elegante e completa l’ho ritrovata nel breve racconto autobiografico Le scarpe rotte: leggetelo.