Dopo l’articolo dedicato al volume Donne piemontesi nella lotta di Liberazione di Ada Marchesini Gobetti, ho deciso di continuare ad approfondire cosa è accaduto in Piemonte, nelle mie terre durante il terribile periodo che va dall’8 settembre 1943 alla fine di aprile 1945 e stavolta vi racconto La donna piemontese nella Resistenza, saggio del 1985 di Maria Alberta Sarti (Tipografia AGAT).
In questo libro, uscito in occasione del quarantennale della Liberazione, Maria Alberta Sarti si concentra sulla rilevanza sociologica e sul forte impatto che le donne piemontesi, per la prima volta davvero unite, hanno avuto prima e durante la Resistenza.
In quegli anni – che cominciano ben prima dell’armistizio, quando l’Italia non è ancora in guerra, ma già deve difendersi quotidianamente dai soprusi del governo fascista – i problemi personali, sentimentali e domestici vengono messi da parte, si crea una comunanza di interessi che supera ogni differenza ed ogni dissenso: le donne mettono da parte il credo religioso, l’iscrizione a un partito, l’attivismo o la totale mancanza di partecipazione pregressa, le differenze di ceto, istruzione, lavoro, provenienza.
Conta soltanto farla finita col dolore e la morte; i maltrattamenti, gli arresti, le deportazioni, il confino, il carcere. Le donne piemontesi fermano il lavoro in fabbrica, boicottano la produzione destinata alla Germania, nascondono renitenti e fuggitivi, li vestono con gli abiti dei loro stessi figli, sovente dispersi su un fronte lontano e sconosciuto.
Se inizialmente a schierarsi e mettersi a disposizione della rete clandestina di Liberazione sono soprattutto le giovani, la situazione si evolve a partire dal dicembre del 1943, quando a Torino Ada Marchesini Gobetti, Rina Pincolato e Lina Merlin costituiscono i Gruppi di difesa della donna: a quel punto l’adesione è immediata, grande e collettiva.
Le donne agiscono come meglio possono, ciascuna nel proprio ambito d’azione quotidiano, costruendo una rete vastissima di contatti, punti di appoggio e raccolta, sostegno e lotta.
Ragazze poco più che adolescenti portano informazioni da e per le valli, percorrendo ogni giorno chilometri in bicicletta, passando per i campi, attente a evitare i posti di blocco.
Le studentesse nascondono fogli ciclostilati clandestinamente nei sottofondi delle proprie borse da universitarie, talvolta sviando in modi clamorosi i sospetti delle SS tedesche.
Apprendo per la prima volta tra le pagine di La donna piemontese nella Resistenza che
lo smistamento di una parte della stampa femminile clandestina viene effettuato per molto tempo proprio nel Palazzo Reale, presidiato dai nazifascisti, grazie ad una inquilina delle mansarde, la mamma del cappellano della Sindone, deportato in Germania: questa anziana signora nasconde quotidianamente giornali e manifestini, che le vengono consegnati da una responsabile della D.C., sotto le provviste acquistate al mercato rionale, quindi rientra tranquillamente nel Palazzo Reale, con la sua borsa della spesa ben carica, sale alla sua mansarda senza subire alcun controllo, e suddivide e raccoglie in plichi il prezioso materiale nella sede stessa del nemico.
A riportare questa preziosa testimonianza è Annarosa Gallesio, che racconta anche di una certa Amalia, donna nubile, di mezza età esile e vestita in modo dimesso, insospettabile come cospiratrice, che nella sua vecchia casa nel centro di Torino si occupa dei documenti più pericolosi, tra cui tessere e lasciapassare falsi per combattenti ed ebrei.
Madri, mogli, infermiere, maestre, operaie, suore, intellettuali raccolgono cibo, vestiti e medicinali; si occupano degli orfani, passano informazioni, curano i feriti con la complicità di medici disposti a rischiare in prima persona.
C’è chi fa visita alle Carceri Le Nuove settimanalmente, portando pacchi viveri, conforto e notizie ai prigionieri politici, a padre Ruggero, cappellano della sezione maschile, e a suor Giuseppina, superiora della sezione femminile. Chi, come Frida Malan, si occupa di tenere i contatti con il campo di concentramento di Fossoli, per fornire notizie e assistenza ai deportati e alle loro famiglie.
Le donne più anziane, meno esposte al rischio di rappresaglie, madri di parroci o mogli e madri di pastori valdesi, vengono scelte nelle valli e nelle campagne, dove la lotta armata è più feroce, per chiudere gli occhi ai partigiani uccisi.
Tutte partecipano, anche le più restie, anche le donne che non sanno leggere, non hanno mai studiato e non hanno mai avuto alcun contatto con ideologie politiche di sorta: è per un bene superiore, per tornare alla normalità, perché è increscioso e inumano ciò che i loro occhi vedono ogni giorno.
Dal giugno del ’44 Torino viene divisa in cinque macro-quartieri, ciascuno dei quali organizzato in presidi sanitari, reti di informazioni, staffette e comitati operai pronti alla Liberazione della città, a cui si arriverà poco meno di un anno dopo. Il tutto pensato e agito in maniera occulta, clandestina e rischiosissima dalle donne.
Alcune di esse entrano a far parte delle brigate partigiane, cambiano identità, colore dei capelli, si allontanano dalle famiglie scappando di notte. Le più fortunate vi faranno ritorno solo molti mesi dopo.
Altre, molte altre donne, non riescono a sfuggire alle barbarie nazifasciste e il simbolo della nefandezza e dell’accanimento nei confronti delle giovani donne che aderiscono in qualsiasi modo alle attività di difesa della libertà è senza dubbio il delitto Arduino.
La sera del 12 marzo 1945 tre fascisti vestiti da partigiani e muniti di documenti falsi entrano nella casa della famiglia Arduino, nel quartiere torinese Barriera di Milano, e arrestano il padre Gaspare Arduino, le figlie Vera e Libera Arduino, il fidanzato di Libera, Aldo de Carli, e i partigiani e coniugi Rosa Ghizzone, in stato di gravidanza, e Luigi Montarolo.
Queste persone vengono trascinate fuori casa e trucidate, i corpi abbandonati in diversi punti della città. L’episodio, ancora oggi tristemente noto per essere uno dei più truci della guerra di Liberazione, non si conclude quella notte, ma ha strascichi dolorosissimi che scelgo di non raccontare qui. Ora vi parlerò soltanto della enorme folla di donne che sabato 17 marzo 1945, alle 8,30 del mattino, si raduna nel piazzale del Cimitero Monumentale di Torino per accogliere le bare di Vera, Libera e Gaspare Arduino: ciascuna di essere tiene in mano un fiore rosso o indossa un particolare di quel colore. Il rosso che diventa simbolo del dolore, della lotta, dello sfinimento, della rabbia, della solidarietà e dell’impegno che le donne non sono disposte a mettere da parte, anche se gli ufficiali nazifascisti impediscono loro l’accesso al cimitero, sparando tra la folla e compiendo arresti.
Vera Arduino era nata nel 1923, Libera Arduino era nata del 1926: nel 1945 avevano 22 e 19 anni e facevano il possibile, sebbene giovanissime, per la società a cui sentivano di voler appartenere. Questo ha mosso le donne piemontesi durante la Resistenza: il desiderio di libertà e di porre fine agli orrori che ogni giorno avevano davanti agli occhi, nel sogno di una democrazia che oggi, nemmeno un secolo dopo, stiamo maltrattando molto.
Io credo fermamente nel potere della Storia e nel grande insegnamento che la memoria può darci: studiamo, leggiamo, non smettiamo di pensare a ciò che è accaduto per evitare di vederlo accadere di nuovo. Il sacrificio e l’impegno di tutte queste donne deve essere anche mio, anche nostro. Perché la mia libertà, oggi, è la tua, cara Vera, Libera, Amalia, Ada, Camilla, Barbara, Luciana, Frida, Marisa, Lucia, Maria, Rosa, Palma, Anna, …
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Per approfondire:
Ho trovato La donna piemontese nella Resistenza grazie a uno dei bouquinistes di via Po, a Torino, e Donne piemontesi nella lotta di Liberazione su una bancarella a un mercatino dell’usato: volumi come questi, in ogni parte d’Italia, sono a nostra disposizione, quasi dimenticati, a pochi spiccioli. Non lasciamoli lì. Leggiamo le storie delle donne.
Non sono riuscita a recuperare online molte informazioni sull’autrice di questo saggio, Maria Alberta Sarti. Se qualcunə di voi l’ha conosciuta, per favore mi scriva.
Restando sempre in Piemonte, un altro piccolo testo affascinante e ricco di testimonianze, è Le donne si raccontano di Alessandra Dell’Atti (2005), anche questo ritrovato su una bancarella.
Vi consiglio anche di leggere: La Resistenza delle donne di Benedetta Tobagi (Einaudi), Storia passionale della guerra partigiana di Chiara Colombini (Laterza) e Con cuore di donna di Carla Capponi (Il Saggiatore).
Vi consiglio di ascoltare e di leggere i contenuti di Mis(s)conosciute e del loro progetto Staffetta Partigiana: sono grata al lavoro di Giulia, Maria Lucia e Silvia perché molto di ciò che so sulle donne della Resistenza e sulle scrittrici italiane del ‘900 è grazie a loro.
Vi consiglio di seguire e di partecipare alle attività di alcuni enti torinesi (chiedo venia a chi è lontano, ma vi scrivo di ciò che conosco meglio): l’Archivio e la Biblioteca dell’Istoreto, il Centro Studi Piero Gobetti, il Polo del ‘900, il Museo Le Nuove, il Museo Diffuso della Resistenza, la Fondazione Vera Nocentini.
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