Leggere con se stessi
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Ora posso pensare a voi

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Donne d’ogni categoria, d’ogni mestiere, d’ogni professione. Donne d’ogni fede; religiosa, politica, filosofica.

Ho trovato su una bancarella un libretto sottile, ingiallito, dalle pagine sgualcite.

Il titolo, Donne piemontesi nella lotta di Liberazione.

Lo apro per vedere in che condizioni sia e mi ritrovo nel pieno della prefazione del 1953 di Ada Marchesini Gobetti: non è trascorso molto tempo dalla fine della guerra, segnata nell’ultima parte da un conflitto civile a cui ciascuno, uomo o donna, in un modo o in un altro ha dato il tutto per tutto.

Negli Anni ’50 la memoria collettiva le ha già messe da parte, le donne che per alcuni mesi, anni o anche soltanto per qualche giorno misero in pausa la vita privata – per quanto possibile a ognuna di loro – per andare incontro a un futuro comune, sociale molto più importante.

La guerra di liberazione in Italia cominciò ufficialmente nel 1943, quest’anno saranno passati ottant’anni eppure parlare di queste donne, tramandarne i gesti, ricordarne la morte è quanto mai ancora necessario. Chi, oggi, avrebbe il coraggio di rischiare così tanto? Me lo chiedo spesso.

Vivere lungamente in pace ci consente di non aver mai provato la paura, lo sfinimento, la rabbia, il pericolo che vissero loro. Forse proprio l’insieme di tutto questo le condusse – con le brigate maschili – a lottare per due anni, a mettere da parte la famiglia, gli studi, il lavoro per un obiettivo superiore, un Paese nuovo e libero.

Il 25 aprile ricordiamo la Liberazione e le vite di chi si schierò nella lotta partigiana, ma in questo articolo vorrei raccontarvi le donne piemontesi che sì, in vari modi vi presero parte, ma pure quelle che rimasero apparentemente ferme, a casa, senza una partecipazione attiva.

Donne di ogni estrazione sociale, idea politica, istruzione, religione.

Alcune di esse inforcarono una bicicletta, imbracciarono un fucile, andarono a combattere sui monti o in Langa. Molte, moltissime altre continuarono a lavorare in fabbrica, rimasero a casa a crescere i figli propri e quelli delle vicine di case che si unirono alla lotta. Le donne anziane continuarono a mungere le mucche e raccogliere le uova perché qualcosa dovevano pur mangiare, i partigiani: questo mi diceva sempre mia nonna.

Nella Resistenza le donne rivestirono ruoli importantissimi, spesso decisivi: furono informatrici, staffette, spie; scrissero e ciclostilarono centinaia di informazioni; coordinarono gruppi informali e operai.

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Erano ragazze di quattordici anni, come Maria Albarelli, nome partigiano Nuccia, morta a meno di dieci giorni dalla Liberazione per un falso allarme.

Erano suore, che nelle carceri salvarono bambini mettendoli tra le lenzuola da lavare per farli evadere: ora è nota a tutti, dopo molti anni, l’opera di suor Giuseppina de Muro e delle sue consorelle alle Carceri Le Nuove di Torino.

Erano infermiere e vivandiere, come Elvira Daniele, insegnante di Boves (CN) che fece parte delle primissime formazioni partigiane piemontesi: chi combatté con lei ricorda che si privò anche del suo materasso per trasportare un ferito grave. Lei è considerata la prima partigiana d’Italia.

Erano operaie, le donne che alla Manifattura Tabacchi di Torino, alla Martini, alla Michelin scioperarono e dissero di no ai caporioni fascisti che volevano convincerle a lavorare di notte, in economia.

Erano interpreti, come Virginia Visetti, nata a Venaria Reale (TO) il 14 febbraio 1919, impiegata di concetto alla Cartiera Italiana come corrispondente di lingue estere.

Molte di loro morirono durante la guerra di Liberazione; moltissime furono imprigionate, altre deportate nei campi di sterminio e concentramento. La dottoressa Vanda Maestro, nata a Torino nel 1919, partigiana informatrice in Valle d’Aosta, donna dalla sensibilità acuta e grande osservatrice, fu arrestata e interrogata a lungo: lei, che diceva di temere la morte e ancora di più la sofferenza fisica, rappresentò per le brigate nere il bersaglio perfetto. Ebrea e combattente; partigiana e donna dal libero pensiero, fu deportata al campo femminile di Birchenau-Auschwitz e lì morì il 31 ottobre 1944 in camera a gas.

Cento pagine compongono questo sottile libercolo che ho tra le mani: vi sono raccontate 99 partigiane piemontesi cadute, 185 donne deportate, 38 cadute civili. Ci sono alcune fotografie in seppia, bellissime. Articoli di giornale e testimonianze storiche vengono riportati con dovizia di particolari. Nessuna di queste donne è messa in secondo piano.

Ora so di tutte le vostre vite e posso pensare a voi, ricordarvi.

Per approfondire:

Donne piemontesi nella lotta di Liberazione è un volume che ho trovato sulle bancarelle dell’usato, oggi fuori catalogo. Lo scrisse la Commissione Femminile dell’A.N.P.I. Provinciale di Torino nel 1953: i riferimenti bibliografici arrivano da qui.

La storia di suor Giuseppina de Muro e di una delle bambine che mise in salvo tra le lenzuola di un carretto diretto alle lavanderie fuori dal Carcere Le Nuove di Torino è raccontata magistralmente nel romanzo di Martina Merletti Ciò che nel silenzio non tace (Einaudi).

Ne parla anche Marcella Filippa nel suo volume Donne a Torino nel Novecento (Edizioni del Capricorno), di cui vi ho parlato qui riportando anche una chiacchierata con l’autrice.

Il Museo Carcere Le Nuove di Torino è visitabile negli orari settimanali o su appuntamento grazie al prezioso lavoro dei volontari di Nessun uomo è un’isola. Se siete di Torino, dintorni oppure programmate un breve viaggio, questo è un luogo che tutti, almeno una volta nella vita, dobbiamo vedere.

Ogni anno Mis(s)conosciute mette in atto un progetto importantissimo per il 25 aprile: Staffetta Partigiana è un lavoro collettivo di memoria e divulgazione che vale sempre la pena seguire e a cui ognuno di noi può partecipare, ad esempio con i ricordi di famiglia.

Un’autobiografia partigiana molto bella è quella di Lidia Menapace, Io, partigiana. La mia Resistenza (Manni): ve la consiglio di cuore.

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