Entrare in punta di piedi, timidamente nella vita di Emily Dickinson è un’emozione che ogni volta mi gonfia il cuore per poi spaccarlo in tanti piccoli pezzi, ognuno dei quali è talmente impregnato di vita da farmi scomparire davanti a lei.
Di fianco a me il libro è aperto sul suo ritratto più famoso – il dagherrotipo del 1847 che è anche l’unica fotografia certamente attribuibile: Nei sobborghi di un segreto è la prima biografia completa di Emily Dickinson che leggo e, mentre le pagine scorrono una dopo l’altra, intensamente io le riempio di tratti di grafite, annotazioni, parentesi.
Mi soffermo soprattutto sui dettagli, sulle piccole cose che rendono speciale un’esistenza: Marisa Bulgheroni in questo volume ce ne consegna parecchi. Grande studiosa dickinsoniana (e della letteratura americana, soprattutto femminile), mi ha insegnato moltissimo e sarò sempre grata a lei e a Il Saggiatore per aver riportato in libreria Nei sobborghi di un segreto. Queste pagine sono biografia e saggio, opera critica e delicata insieme. Mai indiscreta, mai scadente, la dott.ssa Bulgheroni racconta Emily Dickinson con cura e oggettività: l’enorme studio che c’è dietro si percepisce in ogni frase.
Ho apprezzato moltissimo la totale assenza di etichette, sentenze, giudizi. È così che biografe e studiose, biografi e studiosi dovrebbero approcciarsi sempre alle vite delle persone di cui scrivono.
Fin dalle primissime pagine ho trovato conferma di ciò che sento leggendo ogni poesia di Emily Dickinson: la parola scritta ha da sempre fatto parte della sua vita. La loro è una conoscenza profonda, che ha radici nelle generazioni precedenti, in un’esistenza vissuta profondamente, nell’osservazione reciproca quotidiana.
È una bambina, Emily, quando il padre le regala un set da cucito, lei ricama e adempie ai doveri previsti per una piccola donna vittoriana, ma il suo è fin dalla più tenera età il ricamo regale della parola.
Ha i capelli ramati, il carattere dolce e la salute se non proprio cagionevole neppure così buona. L’America, in cui nasce nel 1830, è in bilico tra passato e futuro, tra la certezza dell’Est e il desiderio dell’Ovest, tanto incerta e inquieta quanto posata e rigida è, invece, la vita della famiglia Dickinson ad Amherst, tra cariche politiche, doveri religiosi e accademici.
La natura è appena fuori dalla porta di casa e della vita della poetessa sarà grande protagonista. Le passeggiate nei boschi limitrofi sono lungamente narrate in molteplici lettere; il suo famoso Erbario è composto da fiori raccolti nei prati e in giardino in compagnia del fedele cane Carlo; è versi e sentimento nella maggior parte delle sue poesie.
In un dipinto del 1840 i tre fratelli Dickinson – Emily, Austin e Lavinia – vengono ritratti dall’artista O.A. Bullard in una fanciullesca compostezza ottocentesca che impone loro sorrisi soltanto accennati e corti capelli pettinati in una riga laterale: l’unica a “tradirsi” è Emily, che regge in mano un libro di fiori. L’infanzia e l’adolescenza trascorrono così, in tanti piccoli gesti di calcolata ribellione che non la mettono mai in totale contrasto con la famiglia, ma con i quali farà in modo di non doversi mai consegnare alle consuetudini previste per una donna del suo tempo. Al Mount Holyoke Seminary frequenta le lezioni di botanica e di storia, impara come una buona moglie debba adempiere ai doveri domestici, ma nel “quintetto” delle amiche storiche (tra cui Abiah Root, la saggia, con la quale intratterrà una corrispondenza lunga molti anni) Emily in un gioco di fiori è la calendula selvatica dai vividi bagliori arancioni: proprio come nel linguaggio simbolico legato a questo fiore, l’amore l’impregna alla luce del sole per poi lasciarla, sola e chiusa, all’arrivo della notte. La sua è un’energia vitale e raggiante che vive soltanto dentro di sé.
In pubblico Emily è timida, riservata, i suoi occhi nascondono tutta l’emotività che poi sgorgherà forte nelle sue poesie: cammina, fin dall’inizio della sua vita in pubblico, dentro un cono d’ombra che lei stessa proietta.
A diciotto anni il cuore di Benjamin Franklin Newton (praticante nello studio legale di Edward Dickinson) palpita per lei e in una sua lettera Emily vede riconoscersi per la prima volta come una scrittrice: Vorrei vivere fino a vederti poeta, le scrive lui. Io le trovo delle parole meravigliose e posso solo immaginarmi la gioia che le abbiano dato.
Nello stesso periodo Susan Gilbert arriva come un fulmine che spacca in due il cielo in temporale che è l’anima di Emily. Futura moglie del fratello Austin, sarà la destinataria di 266 poesie e di quasi 200 lettere che la poetessa le scrive nel corso di tutta la vita. Si incontrano tra il 1847 e il 1848 e la loro è fin da subito un’alleanza senza scampo, soprattutto per Emily.
In tutti questi anni studiose e studiosi hanno cercato ogni possibile interpretazione della relazione tra le due, ma la tesi che Marisa Bulgheroni sostiene ne I sobborghi di un segreto è per me l’unica possibile: Emily esprime nelle lettere a Susan un’identità multiforme, potenziale e segreta, un’ambivalenza che mira alla seduzione, che seduce e atterrisce anzitutto lei stessa. Amicale o amoroso, il loro rapporto rimane in quell’alone di segretezza che, da lettrice, riconosco a ogni persona di cui studio una biografia. Stiamo pur sempre parlando della vita di un essere umano.
Emily Dickinson si affaccia all’età adulta con il cambiamento che vede attuarsi intorno a sé: nell’autunno del 1861 ha trentuno anni, ha rifiutato il matrimonio e, allo stesso tempo, ha visto le amiche e il fratello mettere su famiglia e cominciare nuovi percorsi. In quell’autunno, come in una visione premonitrice, inizia a misurare la solitudine in cui sceglierà di vivere e in un anno scrive e trascrive più di 300 poesie: la marea delle sue stesse parole la sommerge.
Sono cominciate le prime crisi di quella fotofobia che la costringe a sottoporsi, tra il 1864 e il 1865, a due lunghi cicli di dolorose cure per una malattia agli occhi che le impedisce di fare pressoché ogni cosa: glaucoma, morbo di Bright, disturbo psicosomatico o prima manifestazione della nefrite di cui poi morirà, il periodo delle terapie che è costretta a fare a Boston la prova pesantemente.
Rientrata ad Amherst, si avvicina sempre più a quella liberazione interiore che fa coincidere esteriormente con l’isolamento.
Due delle sue poesie, datate 1861 e 1863, esprimono chiaramente quanto, nascoste tra i doveri domestici, ci siano parola, vita e tutto l’impeto della scrittura senza la quale Emily non potrebbe vivere perché la scrittura è essa stessa vita, purezza, energia, necessità, normalità.
La donna che scrive questi versi è sconfinata dalla possessione paterna, dai doveri sociali, da ogni forma di costrizione imposta dagli affetti. L’unica vita che la possiede è quella per la parola e sembra dare, come dice Bulgheroni, un messaggio per i biografi: siate cauti nel maneggiare la mia vita; potrebbe esplodervi tra le mani.
I piccoli doveri della vita eseguono – con precisione –
Come se il più piccolo
Fosse – per me – un infinito –
Ripongo Fiori nuovi nel Vaso –
E butto quelli vecchi – altrove –
Spazzo via un petalo dalla mia sottana
Che là s’ancorava – poi soppeso
Il tempo che farà sino alle sei –
Ho tanto da fare
Dal 1865 Emily Dickinson comincia a vestire sempre più spesso poi unicamente di bianco (o in colori sempre candidi, come il grigio chiaro): si schiera dalla parte della natura e lascia agli altri ogni tipo di commento. Passeggia in giardino, osserva i mutamenti della natura, si mischia a essi nell’unico colore che le permette di cogliere tutti gli altri.
I pettegolezzi si sprecano:
Emily Dickinson era una strana creatura… Aveva l’aspetto austero della tipica zitella del New England; vestiva di bianco tutto l’anno e portava i capelli rigorosamente divisi in due bande e raccolti dietro (Eugene Field, vicino di casa)
Io la vidi un’unica volta. Era bella, bella e silenziosa, vestita di bianco (Miss Marian, sarta)
Tutti vogliono commentare e dare una spiegazione a questo comportamento che reputano per lo meno “strano”. Io non l’ho mai visto così. Ho sempre, sempre pensato alla sua scelta di isolamento e solitudine come alla manifestazione più pura della libertà. E così scrive Marisa Bulgheroni: Quella reclusione che, secondo alcuni biografi, è motivata da un’impossibilità di controllare, in pubblico, i sintomi dell’ansia, del panico, dell’agorafobia, risponde paradossalmente a una necessità fisica dell’artista: abitare nel profondo di sé, alle radici della lingua, nel cuore dell’analogia. Nascondendosi là dove tutti sanno che si trova – nel giardino, nella casa, nella stanza, nell’abito, nel corpo – Emily si rende inattaccabile agli assalti del mondo e si espone agli attacchi dell’invisibile.
Nel suo giardino, nella sua stanza Emily Dickinson trascorre la vita che ha scelto e nulla le è impedito: a quarantotto anni vive un altro grande amore; nella sua solitudine affronta i lutti che colpiscono la famiglia dal 1880 in poi.
Il desiderio di etichettarla appartenuto a molti studiosi e studiose non avrà mai soddisfazione: la sua è una energia amorosa che non conosce barriere di sesso, di età, di opportunità.
Emily ama e basta, indipendentemente e nel solo modo in cui può farlo.
È libera, Emily. Mentre tutti la immaginano costretta in un abito bianco tra le quattro mura della sua stanza, lei è pazzescamente libera. Di innamorarsi a quarantotto anni come a venti, di amare, di godere di un amore, di soffrire, di farsi sedurre e di essere seducente, di vivere il lutto delle perdite, di avere paura, di scrivere ciò che desidera.
La fine della sua vita è la parte che mi addolora di più perché vede una famiglia spaccarsi in litigi mentre due fazioni opposte (la sorella Lavinia da una parte, coadiuvata dalla seconda moglie di Austin, Mabel Loomis Todd, e la nipote Martha Dickinson, figlia del matrimonio con Susan Gilbert, dall’altra) si contendono i suoi manoscritti.
Pochissime delle poesie di Emily Dickinson vengono pubblicate quando lei è in vita e non senza pesanti correzioni apportate dagli editori per renderle più appetibili al pubblico vittoriano, certamente impreparato allo stile ermetico e novecentesco della poetessa.
Quasi 1800 poesie, rilegate in fascicles o appuntate su biglietti, buste e ogni pezzo di carta che avesse dello spazio bianco, furono rinvenute immediatamente dopo la sua morte in un baule. Altre centinaia di poesie saltarono fuori da cassetti, scrittoi e armadi. Tutt’oggi l’eredità letteraria di Emily Dickinson è ancora divisa tra gli eredi.
Ma io voglio concludere questo viaggio di parole nella vita di Emily Dickinson con il breve racconto che Marisa Bulgheroni fa del giorno in cui visita la casa della poetessa, il 16 agosto 1999. Quel pomeriggio un temporale sorprende la delegazione di studiosi, critici, biografi e filologi di tutto il mondo mentre attraversano il prato che collega la Homestead con gli Evergreens (la casa del fratello Austin): era una pioggia fine e argentea, come se l’ospite invisibile avesse voluto dare, prima del congedo, un segno della sua presenza.
Io la immagino davvero, Emily, lì nel giardino sotto la pioggia o tra i gigli in fiore di un giugno particolarmente caldo.
Così come le sue poesie permangono, anche lei non è mai andata davvero via se è in grado di riempirmi il cuore e spezzarmelo ogni giorno.
Bonus track
La mia vita con Emily Dickinson è iniziata molto tempo fa, leggendo le sue poesie.
Sul blog trovate un articolo in cui vi racconto del suo giardino insieme a La jeune botaniste: la nostra rubrica si chiama Giardini Letterari e per il suo debutto abbiamo scelto proprio Emily Dickinson e i suoi giardini di Marta McDowell (L’Ippocampo).
Ho scritto anche un racconto, ispirato alla sua vita. Lo leggete qui.
Sui miei canali social parlo molto spesso di Emily Dickinson e presto vi parlerò di una piccola novità che la riguarda: seguitemi qui oppure scrivetemi per rimanere sempre aggiornati.
Ringrazio moltissimo Il Saggiatore e il suo Ufficio Stampa per l’invio regalo della copia di Nei sobborghi di un segreto su cui ho tanto studiato e che mi ha permesso di scrivere questo articolo: avrei tanto voluto intervistare Marisa Bulgheroni e, nonostante questo non sia stato possibile, spero di cuore che le mie parole le arrivino gradite.
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