Questo è il racconto di come le rose sono entrate nella mia vita.
Non so bene cosa scriverò o quale sarà il risultato finale, ma l’intento è quello di provare a narrarvi perché amo le rose e da dove arriva il mio innamoramento senza fine nei confronti di queste piante e dei loro fiori.
Il periodo delle spine
Quando ero bambina e poi giovane ragazza vivevo il giardino e l’orto come un dovere: l’ho anche scritto qui, prendermi cura degli esseri viventi vegetali che abitavano la terra della mia casa natìa era un obbligo al quale mal adempivo. Innaffiare, togliere le erbacce, raccogliere la frutta mi distoglieva dalle letture. Sommavo queste attività a quelle della casa, ai pentoloni di marmellata da rimestare e agli agnolotti da farcire e mi sembrava di non avere mai abbastanza tempo per le mie pagine. Ora, passati più o meno vent’anni da quel periodo, mi rendo conto di quanto io abbia perso e di come quelle attività, oltre ad avermi insegnato molto, mi abbiano aiutata: non avrei avuto, infatti, abbastanza libri per soddisfare tutta la mia voglia di lettura. (Ma questa è un’altra storia che, forse, un giorno, racconterò.)
Le rose, nelle loro più ampie e colorate accezioni di ibridi di tè, popolavano – e popolano tuttora – quei giardini, ma erano intoccabili: occorreva innaffiarle, passare un paio di volte il verderame, potarle a fine stagione, ma durante la loro lunga e ripetitiva fioritura non ci si poteva avvicinare. Guardare ma non toccare. Era mia nonna la dispensatrice di quel diktat e io non potevo far altro che adeguarmi. Le rose andavano lasciate fiorire in giardino e l’unica eccezione che mi concedeva di tagliare qualche lungo stelo dal grande fiore ricorreva una sola volta a settimana; lo scopo era ben preciso: il cimitero. Insieme a fasci di gladioli, margherite dei prati e qualche crisantemo estivo, le rose servivano a dare una nota di colore (per lo più rosso) ai mazzi che ogni domenica mattina, all’alba, portavamo sulla tomba di famiglia, mia nonna e io.
Così io era l’addetta alle spine: mentre alla composizione del mazzo pensava lei, io ero quella che, stelo dopo stelo, si occupava di staccare le spine, una a una, affinché non ci facessimo male durante la sistemazione. Con gli anni, affinai una tecnica che ancora oggi chi mi conosce mi invidia: taluni, ho scoperto, hanno ben paura delle spine di una rosa, ma io no.
Le spine sono state il mio primo modo di amare le rose.
La mia Queen
Quando presi casa, a ventiquattro anni, scelsi l’appartamento in cui vivo per due motivi: una piccola porzione di soggiorno, leggermente isolata, che si prospettava perfetta per mia biblioteca, e i due piccoli giardini esterni.
Arrivavo da un posto pieno di terra, in aperta campagna, dove la regolarità sono le strade sterrate e il granoturco seminato fuori dalla porta e un po’ mi spaventava l’idea di vedere intorno a me soltanto cemento, sebbene il mio rapporto con lo spazio verde non fosse idilliaco.
Ci misi alcuni anni, dopo il trasferimento, a trovare un equilibrio (per quanto fragile) e degli incastri domestici almeno soddisfacenti: per mantenermi da sola, neoassunta a tempo indeterminato, lavoravo dieci, dodici ore al giorno e la sera le energie da dedicare a tutto il resto erano poche. Si salvavano soltanto i libri, perché quelli hanno salvato me tante di quelle volte che farne a meno era impossibile anche se gli occhi mi si chiudevano dalla stanchezza.
Per il giardino su cui affacciano cucina e soggiorno (il giardino di facciata, per intenderci) presi a un mercatino una rosa tè di cui non ricordo il nome, purtroppo. La piantai in un angolo tutto per lei e tuttora lei dimostra di apprezzarlo: è cresciuta rigogliosa e forte, in questi quasi dieci anni, e mi regala dei fiori che ogni primavera assumono dimensioni sempre più stupefacenti. Per questo, da un po’ la chiamo The Queen e spero che per molto tempo nessuna avversità la spodesti dal suo trono. I petali color albicocca, che col passare dei giorni schiariscono fino ad assumere le sfumature dell’ocra chiaro, si allargano in corolle durature e dal profumo leggero: ora che le rose sono mie nessun guardare ma non toccare mi può fermare e questi grandi fiori svettano solitari e regali, molto spesso, al centro del mio tavolo in soggiorno.
Il romanzo della rosa
Aprile, maggio, giugno 2020 mi regalarono una primavera bellissima: tiepida e dalle lunghe giornate luminose, la contemplavo tutta dalle finestre di casa, bloccata dalla pandemia e dalle quarantene. Pur uscendo ogni giorno per lavoro – a distanza di due anni posso dirlo, la mia salvezza – i fine settimana da sola, a casa, non finivano mai. Tra una serie tv e una diretta Instagram, una videochiamata e gli annunci del premier, avevo bisogno di fare qualcosa di tangibile perché sentivo che soltanto tenere le mani occupate sarebbe servito non sentire, per qualche istante, le sirene delle ambulanze. Cominciai in cucina, da buona italiana, sfornando pizze e focacce: ero diventata una di quelle avide di lievito pronte a tutto per un cubetto; ne sfornavo di ogni tipo, sfamavo vicini e colleghi. Presi undici chili in un anno.
Mentre aspettavo i tempi delle lunghe lievitazioni riscoprii anche i miei due, piccoli giardini di casa. Cominciai con quello di facciata, potando la siepe a modino, rinvasando piante sofferenti, chiedendo talee e semi al vicinato. La Queen era semplicemente perfetta: quella primavera fiorì ininterrottamente per mesi.
Poi proseguii con il giardino sul retro, quello più intimo e nascosto che fino a quel momento avevo lasciato un po’ a se stesso (e che ora, invece, amo, manco a dirlo).
Nei miei quasi dieci anni di casa “da adulta” un’altra rosa era stata impiantata proprio lì, nella striscia di terra più discosta e schiva, che così tanto – ora l’ho capito – mi somiglia.
Si tratta della seconda figlia (e per adesso ultimogenita) di una rosa secolare che la mia bisnonna Teresa impiantò di fianco all’uscio di casa, appena trasferitasi nella cascina che è la mia casa natìa. Anni di tentativi di talea portarono a due sole figlie: una andò ad abitare a casa della mia prozia Giovanna (autrice delle talee) e una mi seguì nel mio piccolo giardino. Me la donò mia mamma, espiantandola dal suo giardino, dove era stata inizialmente collocata. La piantai e cominciai a osservarne la crescita anno dopo anno: i suoi fiori li amavo fin da piccola, così rosa e così grandi, dal profumo deciso di autentica rosa. Rimase sola, nel mio giardino ombroso, per alcuni anni e finché non arrivò tra le mie mani Il romanzo della rosa di Anna Peyron (Add Editore).
Di lì, fu soltanto amore.
Attraverso quelle pagine entrai nel mondo delle rose e ne scoprii una realtà magica piena di cose che non sapevo, di nomi francesi e inglesi d’altri tempi, di persone che avevano passato la vita a ibridare, coltivare, maneggiare con cura queste piante dalle antiche origini.
Capitolo dopo capitolo Anna Peyron mi spiegò come le rose vengono classificate, mi raccontò la dedizione totale di Giuseppina Bonaparte ai giardini della Malmaison e alla nobile causa delle rose; imparai chi furono i principali ibridatori e come i gusti per questa pianta cambiarono nel corso del tempo.
Il romanzo della rosa mi spalancò le porte di un amore pazzesco tutto da imparare, diventando la mia personale bibbia delle rose.
Da quel momento, il mio innamoramento fu totale e l’ombroso giardino sul retro è da un paio di anni divenuto il mio piccolo roseto: lì impianto le nuove rose, che scelgo ognuna tra mille perché ognuna ha un motivo particolare per essere lì; lì le osservo, le curo, sbaglio e mi riprendo, imparo, provo, trascorro – adesso – molto tempo.
Una pandemia mi ha riavvicinata alla terra e un libro mi ha condotta alle rose.
Lo scorso inverno, quando il freddo e la neve non mi consentivano di fare nulla all’esterno, presi un quaderno e iniziai a scrivere del mio giardino. Sono appunti sparsi, idee, nomi di piante che vorrei, prima o poi, avere. Una sezione del quaderno si chiama Le mie rose e lì, finora, trovano spazio questi nomi: The Queen of the garden, La Bonne Thérèse, Cécile Brunner, Alfred de Dalmas, Emily Brontë, Olivia Rose, Sophie Rochas.
Tutto è perennemente una grande scoperta e imparare mi riempie di gioia perché è bello e perché posso farlo leggendo e prendendomi cura di una dimensione giardino-roseto che faccio mia giorno dopo giorno.
Continuo a leggere testi sulle rose di ogni genere, anche se prediligo i libri di qualche anno fa e quelli che mi raccontano come opera(va)no i grandi giardinieri di sempre: Ippolito Pizzetti, Paolo Pejrone, Gertrude Jekyll, Vita Sackville-West, Anna Peyron, David Austin e tanti altri.
Il mio amore senza fine, per dirlo alla Scott Spencer, sono le rose.
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